venerdì 1 agosto 2008

Il re è nudo: il PD e la questione Livorno

Intervento pubblicato sul "Corriere di Livorno" 21 luglio 2008

Già molte parole sono state spese per cercare di capire come il Partito Democratico stia prendendo forma, con quali caratteristiche e, più di tutti, se stia realmente rispondendo a quella fortissima domanda di partecipazione da parte dei propri elettori e di molti cittadini.
Le risposte, a quanto si sta evidenziando, non sono molto incoraggianti e si stanno manifestando “sacche” sempre più ampie di elettori del PD che di fronte a grandi aspettative di democrazia partecipativa si sono sentiti e si sentono oggettivamente delusi.
Livorno non sembra essere esente da tali sentimenti e il riferimento, l’ultimo in ordine temporale, al disagio espresso dalla coordinatrice del circolo di Ardenza Gabriella Cecchi ne è un chiarissimo esempio.
Io stesso, ormai da tempo, ho avuto molte occasioni per esprimere il mio (e non solo mio) disappunto di fronte a scelte molto dirigiste e poco partecipative, dalle liste bloccate per la costituente fino alla burla delle cosiddette “primariette”. L’ultima “chicca” è stata la (unica) assemblea comunale organizzata solo attraverso un susseguirsi di molti interventi generici su vari temi in cui nulla è stato deciso o almeno discusso nel dettaglio di problematiche specifiche. Questo è anche grave perché potrebbe significare il disprezzo (o l’incapacità) da parte della dirigenza locale nei confronti dell’unico organo decisionale comunale vero e partecipato che al momento abbiamo. Fa anche specie che, dall’interno del PD e dai propri delegati, non si levino grandi voci di protesta in merito, quanto meno per rispetto intellettuale.
Tutto questo è accaduto non solo grazie a responsabilità e scelte a livello nazionale ma è anche da imputare ad un alto livello di voluta inerzia almeno di parte dei gruppi dirigenti locali di ex DS e Margherita. E’ accaduto che, quando ci si è trovati a dover fare reali scelte di cambiamento, si è (hanno) deciso di continuare sulla strada suicida dei piccoli “manuali Cencelli” alla livornese piuttosto che seguire una strada nuova e partecipata. In due parole le priorità personali di pochi hanno avuto la meglio sull’interesse legittimo di molti. Dirigismo contro partecipazione, oligarchia e personalismo contro democrazia. E’ il colmo per un partito che si chiama democratico. Il caso del circolo di Ardenza ne è un chiaro esempio laddove, al di là del torto e della ragione, si costringe alle dimissioni una coordinatrice eletta direttamente e in modo trasparente solo pochi mesi fa come da Statuto e successive modifiche. Oltretutto in modo sciocco per gli stessi promotori di tale iniziativa poiché si è creato nei modi un precedente pericoloso. Infatti, al di là della bontà di ragioni specifiche, nulla potrebbe impedire ad altri circoli sia a Livorno che fuori di sentirsi in diritto di fare un proprio comitato interno autolegittimato e “licenziare” di fatto un coordinatore/trice democraticamente eletto. Questo in barba a quelle regole di partecipazione che ci stiamo faticosamente costruendo ma seguendo invece l’arroganza della politica molto urlata e poco riflettuta e discussa. E invece di costruire si distrugge (quel poco che c’è). Invece di crescere e risolvere problemi veri si regredisce e la gente, i cittadini, gli elettori sembrano andarsene. Giustamente, se questo è lo spettacolo offerto.
La domanda sostanziale però è: “Ma il partito democratico, quello vero, dov’è?”. La realtà sembra essere paradossalmente molto chiara. C’è un partito percepito come ‘finto’, che poi è quello che appare, e che tale sembra essere vissuto da molte persone a causa delle dinamiche prima espresse. Dopotutto è pur vero che non si può pensare di creare un partito senza passare attraverso momenti veramente partecipati e pretendere al contempo di essere amati dal ‘popolo’. Mica la gente è scema. La risposta alla domanda, forse anche troppo banale, è che il partito vero quello partecipato con passione, dove non si ha paura del confronto e neanche di primarie vere e meccanismi veramente democratici ebbene, quel partito è ancora tutto da costruire. Perché al di la delle organizzazioni e dei regolamenti al centro ci sono le persone. E se guardo i numeri questo partito “vero” che piano piano sta venendo fuori, magari timidamente ma in modo molto deciso, bene i numeri di chi sta nel “partito reale” sono veramente alti. Sono almeno gli stessi, circa 14000, che con entusiasmo hanno fondato il partito il 14 ottobre 2007 e forse altri ancora che non si conoscono. Sta a tutti coloro che credono nello spirito democratico e partecipativo mettere la parola fine e chiudere in modo deciso con i metodi che hanno molto poco di presente e tanto del peggior passato e che rischiano di far scappare a gambe levate molti di quei soci fondatori.
Daniele Bettinetti

1 commento:

Ettore ha detto...

IL FOGLIO - 7 agosto 2008

Viva il centralismo democratico
Il caso Chiamparino ultimo esempio di un problema dei nuovi partiti

Una delle caratteristiche storiche della sinistra italiana, la più influenzata tra quelle occidentali dall’impostazione leninista, era la disciplina di partito. La formula del “centralismo democratico” – le organizzazioni di livello inferiore eleggono quelle di livello superiore, alle quali sono subordinate nelle decisioni – resistette a tutte le bufere. Questo non impedì che tendenze politiche contrastanti, o “diverse sensibilità”, come le definiva castamente Giorgio Amendola, si esprimessero nel confronto di organismi dirigenti ristretti, ma l’unità nell’azione e l’esecuzione corale delle decisioni assunte erano sempre assicurate. Sarebbero stati inconcepibili, allora, episodi come quelli che caratterizzano attualmente la vita interna di Rifondazione, dove i consiglieri calabresi decidono di entrare nella giunta, nonostante il divieto esplicito del segretario, e l’organo di stampa del partito rivendica l’autonomia dalla linea vincente del congresso, o nel Partito democratico, dove persino l’innocua petizione per “salvare l’Italia” riceve ripulse e diserzioni e in molti centri è in corso una specie di guerriglia tra amministratori e organizzazioni di partito.
Naturalmente sarebbe insensato provare nostalgia per il centralismo democratico, che viene mantenuto come vincolo statutario soltanto nel museo delle cere denominato Partito dei comunisti italiani. In sostanza quel principio organizzativo era l’espressione di quello ideologico secondo cui “la coscienza rivoluzionaria si porta dall’esterno”. Il fatto è che con il centralismo pare se ne sia andata anche la democrazia, intesa come metodo di maggioranza. Le maggioranze congressuali sembrano rappresentare l’ambito ristretto della militanza, che non coincide con quello più ampio del consenso elettorale. Sergio Chiamparino, uno dei sindaci più popolari d’Italia, ha perso il congresso torinese dei democratici, e adesso si sente assediato. L’espediente delle primarie (che dovrebbero scegliere i candidati alle cariche pubbliche e non i leader di partito) non ha sciolto questa contraddizione, che invece tende a esplodere sul territorio e agevola l’organizzazione di correnti nazionali che diventano i veri referenti politici della militanza più attiva. La decadenza di un principio organizzativo obsoleto e soffocante non ha trovato ancora un’alternativa efficace, indipendentemente dalla caratteristica delle leadership, visto che l’indisciplina colpisce tanto Paolo Ferrero quanto Walter Veltroni.